L'EDITORIALE Il soldato Fini salvato dai giudicidi Alessandro Sallusti
Il gip di Roma archivia il caso Montecarlo: ha favorito il cognato ma è stato prosciolto. D'Alema e Scajola, per casi simili, hanno mollato immobili e poltrone. Lui resterà al suo posto e dirà che ha vinto.
Nonostante i silenzi omertosi e le smentite imbarazzate, il Giornale ricostruì la scorsa estate il caso in tutti i suoi dettagli. Nomi, cifre, dati e fatti hanno trovato piena conferma anche nell'inchiesta dei pm romani. I quali peraltro non hanno sentito la necessità, cosa apparentemente strana, di interrogare i due protagonisti della vicenda, cioè il presidente della Camera e il cognato Giancarlo Tulliani. Per tutti questi mesi la magistratura ha tenuto un comportamento di grande riguardo nei confronti di Fini, comunicando per esempio la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati contemporaneamente alla richiesta di assoluzione.
Ce ne fossero di toghe così un po' ovunque, che ne so, magari a Milano o a Napoli, per dire di due procure che somigliano, in quanto a riservatezza, a un colabrodo, soprattutto se di mezzo c'è Silvio Berlusconi o qualche uomo a lui legato. E fosse sempre così il rispetto, direi il distacco, della stampa che sul caso Montecarlo non si può dire abbia scatenato i suoi cronisti di punta a caccia di verità. Anzi, se sforzo c'è stato è andato in direzione opposta, insinuando il dubbio che il presidente Fini fosse vittima di una campagna di fango. Ora sappiamo che si parlava di fatti e non di veleni, e che questi, secondo il Gip, non costituiscono reato perché c'è una norma in base alla quale i partiti sono equiparati a istituti privati e come tali, penalmente parlando, liberi di disporre del proprio patrimonio come meglio credono.
Cosa che farà felice il cognato di Fini, non i militanti di An che, per usare un eufemismo, si sentono traditi e presi in giro. Politicamente (per la giustizia civile lo vedremo presto) il caso resta in piedi in tutta la sua imbarazzante verità. Fini non ha commesso reato penale, come D'Alema quando abitava in una casa pubblica pagando un canone ridicolo, come Scajola e il pasticcio della casa vista Colosseo pagata non si sa bene da chi. C'è però una differenza tra i tre casi. D'Alema, beccato in fallo, ha mollato l'appartamento. Scajola, beccato in situazione sospetta, si è dimesso da ministro. Fini invece continua come se nulla fosse, nonostante avesse annunciato dimissioni nel caso fosse stato accertato non un reato ma la proprietà del cognato.
Il segreto è stato svelato, addirittura certificato da un governo sovrano, quello di Santa Lucia dove hanno sede le due off shore, e ufficialmente comunicato al nostro Parlamento dal ministro degli Esteri, Franco Frattini. Niente, Fini non vuole saperne di essere di parola, neppure di fare il gesto di restituire alla sua gente quella casa che invece resta, per quel che ne sappiamo, nella disponibilità del giovane Tulliani. Ora avrà anche la sfacciataggine di dire che ha vinto lui, come se l'eticapolitica da lui tanto sbandierata come elemento fondante del suo Fli fosse una gara in punta di codice penale. Si tenga pure la casa, il cognato, la poltrona e i suoi spergiuri. Lo abbiamo misurato, non andrà lontano.
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