Essere mafioso e pentirsi a Torino
13 lug 2011 | Categoria: archivio articoli, fuoricatalogoShareThis
di Elena Ciccarello
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Antonio Saia era un pezzo da novanta del clan dei catanesi a Torino. Negli anni Settanta e i primi anni Ottanta il suo gruppo si spartiva la piazza torinese con i calabresi di Mimmo Belfiore, gli stessi che ventotto anni or sono ordinarono l'omicidio del procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia. Li chiamavano i Cursoti ed erano avversi, a Catania, al gruppo capeggiato dal super boss Nitto Santapaola. Nella sola Torino contavano circa 50 affiliati.
Dopo gli arresti dei primi anni Ottanta molti di loro si pentirono e fu proprio uno dei loro capi, Ciccio Miano, a collaborare con i servizi segreti per raccogliere in carcere, con un registratore nascosto negli slip, le prove che inchiodarono Belfiore come mandante dell'assassinio del procuratore torinese. Antonio Saia, detto Nino, non si comportò diversamente dagli altri, prima come figura di primo piano nelle attività criminali, poi come collaboratore.
Quando iniziò a rilasciare dichiarazioni ai magistrati, nel 1984, aveva già decine di omicidi alle spalle. Il suo nome comparve su tutti i giornali come una delle figure cardine dell'inchiesta e al conseguente maxi processo alla mafia di Torino allestito dai procuratori Acordon, Trovati, Lanza, Laudi e Tamponi e che portò alla sbarra 250 imputati responsabili della guerra che aveva insanguinato la città per il controllo del mercato della droga. Nino aveva tanto da raccontare: si era occupato di armi, rapine, estorsioni e narcotraffico, aveva tenuto per un periodo la cassa del gruppo e fatto investimenti comprando appartamenti o partecipazioni alle attività di night, bar (tra cui alcuni locali dei famosi Murazzi del lungo Po torinese) e persino in grandi opere: "Cè stato qualcosa, per esempio, nell'autostrada del Frejus". Ma il suo status di collaboratore fu presto interrotto per un duplice omicidio commesso nell'ottobre 1991 mentre era in libertà vigilata. Amedeo Cottino, professore di sociologia e criminologia, ne restituisce un ritratto di uomo e criminale attraverso la sua viva voce, raccolta in due anni di colloqui in carcere.
Dopo gli arresti dei primi anni Ottanta molti di loro si pentirono e fu proprio uno dei loro capi, Ciccio Miano, a collaborare con i servizi segreti per raccogliere in carcere, con un registratore nascosto negli slip, le prove che inchiodarono Belfiore come mandante dell'assassinio del procuratore torinese. Antonio Saia, detto Nino, non si comportò diversamente dagli altri, prima come figura di primo piano nelle attività criminali, poi come collaboratore.
Quando iniziò a rilasciare dichiarazioni ai magistrati, nel 1984, aveva già decine di omicidi alle spalle. Il suo nome comparve su tutti i giornali come una delle figure cardine dell'inchiesta e al conseguente maxi processo alla mafia di Torino allestito dai procuratori Acordon, Trovati, Lanza, Laudi e Tamponi e che portò alla sbarra 250 imputati responsabili della guerra che aveva insanguinato la città per il controllo del mercato della droga. Nino aveva tanto da raccontare: si era occupato di armi, rapine, estorsioni e narcotraffico, aveva tenuto per un periodo la cassa del gruppo e fatto investimenti comprando appartamenti o partecipazioni alle attività di night, bar (tra cui alcuni locali dei famosi Murazzi del lungo Po torinese) e persino in grandi opere: "Cè stato qualcosa, per esempio, nell'autostrada del Frejus". Ma il suo status di collaboratore fu presto interrotto per un duplice omicidio commesso nell'ottobre 1991 mentre era in libertà vigilata. Amedeo Cottino, professore di sociologia e criminologia, ne restituisce un ritratto di uomo e criminale attraverso la sua viva voce, raccolta in due anni di colloqui in carcere.
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